Nella memoria collettiva dei popoli, il cibo non è mai stato soltanto nutrimento. È rito, augurio, scongiuro. È un gesto quotidiano che affonda le radici in simbolismi millenari e credenze capaci di sopravvivere anche nell’epoca della razionalità tecnologica. Nell’universo enogastronomico convivono infatti, accanto all’arte della cucina e alla cultura della tavola, tradizioni superstiziose, piccoli riti domestici e simboli carichi di potere evocativo.
Prendiamo i legumi. Non c’è Capodanno in Italia, soprattutto nelle regioni centrali e meridionali, che non contempli un piatto di lenticchie fumanti, spesso accompagnate dal cotechino o dallo zampone. La forma tondeggiante e appiattita di questi legumi non è casuale: rievoca le antiche monete romane, piccoli dischi di metallo che incarnavano il potere d’acquisto, la prosperità, il futuro assicurato. Offrire lenticchie a inizio anno è un modo per “seminare” fortuna economica, con la speranza che ogni lenticchia si trasformi simbolicamente in una moneta sonante. L’usanza affonda le sue origini proprio nell’antica Roma, dove si usava regalare una scarsella – una piccola borsa in cuoio colma di legumi secchi – con l’augurio che si riempisse presto di denaro reale. Ma anche fagioli e piselli, in diverse culture contadine, sono stati a lungo considerati simboli di abbondanza: crescono numerosi, si conservano a lungo, e la loro raccolta evoca una benedizione della terra.
Il pane, il sale e l’olio, invece, trascendono il valore scaramantico per toccare il sacro. Tre alimenti poveri, basilari, eppure carichi di significato. Il pane, in particolare, rappresenta la vita e il lavoro dell’uomo: farlo cadere a terra o, peggio ancora, gettarlo via è considerato un affronto, quasi una bestemmia. In molte famiglie contadine, il pane che cadeva veniva raccolto, baciato e segnato con la croce prima di essere mangiato. E mai, mai si metteva il pane capovolto sulla tavola: segno di sventura, rottura dell’ordine, richiamo alla morte. Il sale, minerale antichissimo e prezioso come l’oro nei tempi antichi, ha una lunga storia magico-religiosa. Versarlo equivale a rompere un legame, a “gettare via la fortuna”, e per rimediare si dice si debba prendere un pizzico e lanciarlo dietro la spalla sinistra, alla cieca, per colpire – si crede – il diavolo in agguato. Quanto all’olio, che nei riti cristiani è simbolo di unzione, purezza e benedizione, il suo spreco è ritenuto gravissimo: versarlo senza motivo porta disgrazia, e ancora oggi, in molte case, l’olio viene custodito come una reliquia, quasi con timore reverenziale.
E poi c’è il vino. Non soltanto bevanda conviviale o oggetto di culto enologico: il vino è, da secoli, un liquido sacro, carico di valenze esoteriche e simboliche. Il gesto del brindisi – il tintinnio dei bicchieri, lo sguardo negli occhi, la formula di buon augurio – è un rito in piena regola. Evitare il contatto visivo durante il brindisi è considerato irrispettoso, se non addirittura foriero di sfortuna amorosa (sette anni di passione negata, ammoniscono le leggende metropolitane). Ma c’è di più: non si brinda mai con l’acqua. La sua trasparenza, l’assenza di colore, la mancanza di corpo e calore, la rendono “inutile” sul piano simbolico. Il vino, al contrario, è fuoco liquido, sangue della terra, e in alcune culture contadine versarlo sul terreno – magari “col mignolo”, con gesto discreto – era un modo per “offrire alla terra” un tributo, per onorare i morti o scongiurare il malocchio.
Nel repertorio dei frutti beneauguranti, l’uva e il melograno occupano un posto d’onore. In Spagna, allo scoccare della mezzanotte di San Silvestro, è tradizione inghiottire dodici chicchi d’uva, uno per ogni rintocco dell’orologio: ogni acino è un mese, e se il frutto si rivela dolce, sarà un periodo fortunato. Se è aspro, si preannuncia più amaro. Anche in Italia, l’uva compare nelle tavole natalizie come segno di abbondanza futura. Ma è il melograno a racchiudere il simbolismo più profondo: frutto antichissimo, già sacro a Persefone e Afrodite, è considerato da secoli emblema di fertilità, fecondità e ricchezza. In molte regioni del Sud Italia e in Grecia, si usa romperne uno sulla soglia della casa a Capodanno, lasciando che i chicchi si spargano ovunque, per invocare fortuna e abbondanza per l’anno nuovo.
Infine, l’amore. Anche in cucina, i rituali propiziatori per conquistare, mantenere o sedurre l’oggetto del desiderio sono numerosi quanto ingegnosi. La mela, tagliata a metà e condivisa, è un gesto di legame: si dice che se due innamorati ne mangiano le due metà, il loro amore durerà. In altre tradizioni, è utilizzata per predire il volto dell’amato, incisa con iniziali, lasciata sotto il cuscino o gettata sul fuoco per osservarne la combustione. Il cioccolato, invece, è il cibo afrodisiaco per eccellenza: dolce, seducente, narcotico. Donarlo è un messaggio, mangiarlo insieme è già una forma di complicità sensuale. Ma l’amore, nella cucina popolare, è anche fatto di infusi, spezie, “filtri” più o meno innocenti: la cannella che riscalda i sensi, il chiodo di garofano che infiamma il sangue, lo zenzero che accende il desiderio. Un tempo si preparavano decotti segreti, liquori speziati, biscotti “parlanti” in cui si nascondeva il pensiero di chi li offriva.
Tra superstizione e tradizione, la tavola diventa così lo specchio di un desiderio umano che attraversa i secoli: quello di controllare l’incerto, di propiziare il destino, di nutrire non solo il corpo, ma anche l’anima e il cuore. Mangiare, brindare, donare: tre gesti semplici, ma colmi di segreti antichi, mai del tutto svaniti.
Ma se alcuni alimenti sono invocati come portatori di fortuna e prosperità, altri, nella tradizione popolare, assumono una valenza opposta: cibi “vietati”, tabù, carichi di presagi nefasti, esclusi da certe occasioni per il timore che potessero compromettere l’equilibrio del destino. È il caso, ad esempio, delle pere nei funerali: in alcune zone d’Italia, si ritiene sconveniente offrirle durante i riti funebri o nei giorni del lutto, forse per via della loro forma che richiama quella del cuore e per l’assonanza popolare fra “pera” e “perdita”. Non meno inquietante è il rosmarino, oggi molto apprezzato in cucina, ma un tempo associato alle cerimonie funebri: pianta di memoria e purificazione, veniva posto tra le mani dei morti o bruciato nei riti domestici per scacciare spiriti impuri, e portarne in casa troppo, fuori contesto, poteva essere letto come un cattivo presagio.
Anche le uova – simbolo per eccellenza della vita e della rinascita – non sfuggono a una doppia valenza simbolica. Se integre rappresentano potenza generativa, rotte fuori tempo o lasciate senza guscio diventano, nella superstizione, segno di sventura, di equilibrio infranto. In alcune aree rurali del Meridione, ad esempio, si ritiene che rompere un uovo fuori dalla preparazione rituale del cibo possa “liberare” presenze indesiderate. Quanto al numero dispari, da sempre percepito come instabile o incompleto, persiste ancora oggi nella regola non scritta che vuole biscotti, cioccolatini o dolcetti serviti in numero pari, soprattutto durante cerimonie pubbliche e banchetti familiari. Offrire un numero dispari di dolci può turbare chi conserva, anche inconsciamente, certe radici superstiziose.
Ma l’incontro più profondo tra cibo e aldilà si realizza nei riti legati alla commemorazione dei defunti. In Lombardia, il “pane dei morti” – dolce compatto a base di cacao, amaretti e frutta secca – si prepara ogni anno in prossimità del 2 novembre, come offerta simbolica alle anime che tornano a visitare i vivi. In Sicilia, le “cose dei morti” sono piccoli doni dolci lasciati ai bambini nella notte di Ognissanti, a simulare una continuità tra generazioni e a trasmettere, attraverso il gusto, il ricordo. In Puglia e in altre regioni del Sud, si conserva ancora l’usanza di apparecchiare la tavola per le anime dei defunti, lasciando acqua, vino, pane e piatti tradizionali nella notte tra l’1 e il 2 novembre. Gesti semplici ma potenti, in cui il cibo diventa veicolo di relazione con l’invisibile. Somiglianze sorprendenti si trovano nel Día de los Muertos messicano: altari domestici decorati con pan de muerto, calaveras di zucchero, piatti preferiti dai defunti e bicchieri di mezcal lasciati accanto a fotografie e candele.
Non sorprende, allora, che i dolci abbiano anche un ruolo cruciale nei momenti di gioia, di passaggio e di rinascita. Nascite, battesimi, matrimoni, inaugurazioni: ogni nuovo inizio richiede un tocco di dolcezza, quasi a voler profetizzare un destino gradevole, ricco di soddisfazioni. I confetti, con il loro cuore duro e il rivestimento zuccherino, sono l’emblema più celebre di questa simbologia: la mandorla, amara come la vita, viene addolcita dallo zucchero, trasformata in pegno di prosperità. Le bomboniere, le torte nuziali a più piani, i biscotti decorati con nomi e date, sono molto più di una moda: sono strumenti rituali per fissare nella memoria collettiva un evento lieto e assicurarne il buon esito. Persino la colazione di un giorno importante – un esame, un trasloco, l’apertura di un’attività – viene arricchita, spesso inconsapevolmente, di ingredienti portafortuna: miele per attirare parole dolci, frutta secca per la forza, caffè per la lucidità.
Al di fuori dei confini italiani, la tavola continua a ospitare superstizioni e pratiche propiziatorie. In Cina, ad esempio, i noodles rappresentano la longevità: più sono lunghi, più lunga sarà la vita. Guai a spezzarli prima di mangiarli, soprattutto durante i festeggiamenti per il Capodanno. In Corea e in alcune zone del Sud-est asiatico, si evita di servire pollo a Capodanno: si teme che, essendo un animale che “gratta via” con le zampe, possa metaforicamente “portare via” la fortuna appena ricevuta. In molte culture africane, i semi di sesamo vengono sparsi davanti alle porte o usati nei riti culinari per allontanare il male: il piccolo seme, portatore di vita, è anche scudo contro le energie negative. In America Latina, la superstizione entra persino nei mercati: alcune donne boliviane, ad esempio, rifiutano di acquistare sale o peperoncino nei giorni dispari del mese, per evitare scontri familiari.
Nemmeno le cucine domestiche, infine, sono immuni da gesti quotidiani densi di superstizione. Se cade un cucchiaio, si dice che stia per arrivare una visita – una forchetta, invece, annuncia un uomo; un coltello, una donna arrabbiata. Regalare un coltello è da evitare: “taglia” il legame tra chi lo dona e chi lo riceve, a meno che non si chieda in cambio una moneta simbolica. Alcuni dolci nascondono sorprese propiziatorie al loro interno: è il caso della vassilopita greca, torta di Capodanno in cui si cela una moneta benedetta. Chi la trova, sarà fortunato per tutto l’anno. In Francia, la galette des rois, servita all’Epifania, nasconde una fava o una piccola statuina: chi la scopre nel proprio pezzo diventa “re” per un giorno, e spesso è tenuto a offrire il dolce l’anno seguente.
Lontano dall’essere un semplice luogo di consumo, la tavola si rivela così uno spazio sacro e narrativo, dove l’enogastronomia incontra la superstizione in un intreccio fitto di gesti, racconti, timori e speranze. Dietro ogni piatto, ogni brindisi, ogni dolce o spezia, si cela una storia che parla di noi, della nostra fragilità e del nostro bisogno ancestrale di credere che, almeno a tavola, possiamo ancora influenzare il destino.
