Vini e cibi della notte: cosa mangiavano e bevevano streghe, vampiri e fantasmi?

Un’indagine sulle abitudini alimentari nelle storie di paura e nel folklore.

Nel cuore della notte, quando i fuochi si abbassano e le ombre si fanno più lunghe, il mondo del cibo si tinge di simboli, misteri e superstizioni. Non è solo la fame a muovere le creature dell’oscurità: è il desiderio, il rito, il potere. E nel calderone della tradizione popolare — là dove si fondono cucina, mito e magia — emergono pietanze e bevande che non nutrono soltanto il corpo, ma l’immaginazione, la paura, l’incanto.

Il sabba delle streghe, ad esempio, non è solo orgia di carne e spirito. È banchetto simbolico, cerimoniale, sensuale. Le cronache inquisitoriali, mescolate a superstizione e leggenda, descrivono tavole imbandite con alimenti ricchi di significati esoterici: latte di capra, simbolo lunare e materno; miele, dolcificante sacro che richiama l’età dell’oro e i riti pagani dell’abbondanza. Non mancano poi le carni, spesso crude o bruciacchiate, a evocare il crudo istinto, l’animale selvatico che abita l’essere umano. E naturalmente il vino — non un vino qualsiasi, ma scuro, speziato, talvolta bollito con erbe e radici — servito caldo, in coppe rituali, per riscaldare il corpo e aprire la mente. L’aggiunta di droghe naturali, come la mandragora, la datura o l’oppio, completava l’opera: l’ebbrezza diventava trance, la cena si faceva soglia tra i mondi.

Proprio il vino, del resto, è il grande protagonista della simbologia vampiresca. Rosso, denso, carico di aromi ferrosi e fruttati, è il perfetto surrogato del sangue — e forse anche il suo alter ego più elegante. Nel mito di Dracula, il sangue è vita e maledizione insieme, dono e condanna; ma il vino, nella sua forma più cupa e liquorosa, ne ricalca il significato. Da secoli, rosoli scuri come il ratafià o l’amarena, i vini liquorosi e i passiti carichi di zuccheri evocano — anche inconsciamente — l’idea dell’ematico, dell’intimo, dell’inebriante proibito. Berli significa abbandonarsi. Offrirli, dominare.

Ma non tutto ciò che si porta alla bocca ha il sapore dell’estasi. Esistono pietanze maledette, cibi che la tradizione vuole portatori di sciagura, malattia o morte. La più famosa, forse, è la mela — strumento di seduzione e veleno insieme, da Eva a Biancaneve. Ma in molte culture europee il pane nero è stato considerato per secoli un alimento nefasto, simbolo di lutto e di castigo divino. Alcuni racconti orali delle valli alpine parlano di minestre “stregate”, servite nei giorni sbagliati, che portavano allucinazioni, malanni o sparizioni misteriose. E in certe zone del Sud Italia si credeva che offrire un piatto non richiesto — soprattutto se contenente legumi o uova — potesse essere un atto di malaugurio, un tentativo di “legatura”.

Non sorprende, dunque, che il cibo abbia da sempre un ruolo anche nel rapporto con l’aldilà. Pane, vino, dolci e frutta vengono ancora oggi offerti ai morti in molte culture. Durante la notte tra l’1 e il 2 novembre, in Sicilia e in altre regioni del Meridione si preparano dolci tipici — come le “ossa dei morti” — lasciati sul tavolo per i defunti in visita. In Messico, per il Día de los Muertos, le famiglie imbandiscono altari domestici con piatti preferiti dai defunti, insieme a tequila, pane e caffè. Nell’antico Samhain celtico, antenato di Halloween, si lasciavano cibo e bevande fuori dalla porta, per placare le anime vaganti e assicurarsi un raccolto propizio. Anche il mondo romano conosceva queste usanze, con le offerte dei parentalia e le libagioni rituali nei cimiteri.

Infine, c’è tutto un universo nascosto dietro le erbe e le piante utilizzate nelle cucine magiche. Non si tratta solo di spezie o aromi, ma di ingredienti vivi, carichi di poteri invisibili. L’assenzio — amato dai poeti maledetti e vietato per decenni — era simbolo di visione e delirio. La belladonna, il giusquiamo e lo stramonio, usati in pomate o infusi, conducevano a stati alterati, ma anche alla morte. Altre piante, come il finocchio selvatico, il rosmarino o l’alloro, avevano invece un valore protettivo, purificante. Le streghe le usavano per ungere i corpi, benedire le cucine, proteggere gli ingressi. Nella cultura popolare, la distinzione tra veleno e rimedio è spesso sottile: tutto dipende dalla dose, dall’intento, dal momento. Come in cucina, anche nella magia l’equilibrio è tutto.

E così, quando guardiamo dentro un calice scuro o annusiamo l’aroma di un piatto speziato, potremmo ricordarci che ogni gusto è un richiamo, ogni sapore una storia. E che a tavola, soprattutto nelle notti senza luna, siedono anche gli invisibili.

Nel gioco delle ombre e dei sapori, anche la cucina può diventare un’evocazione. L’immaginario gotico e horror, così ricco di simboli, estetiche decadenti e tensioni tra desiderio e repulsione, offre spunti straordinari per chi voglia osare tra i fornelli. È nata così, negli ultimi anni, una vera e propria corrente di ricette gotiche, che rilegge la tradizione gastronomica con tocchi oscuri e teatrali. Ravioli neri all’inchiostro di seppia, con un cuore rosso di barbabietola e ricotta, sembrano fiorire come rose avvelenate nel piatto. Dessert dal cuore “insanguinato”, come mousse al cioccolato fondente con coulis di lamponi, oppure piccoli pudding glassati al ribes, richiamano il piacere ambiguo del morso proibito. E ancora: cocktail notturni al carbone vegetale, gin viola con rosmarino affumicato, “elisir della luna piena” a base di succo di mirtillo e assenzio. Il trucco è evocare, non imitare: inquietare con eleganza, non scioccare con eccessi. L’orrore, in cucina, è più potente quando si insinua sottopelle, come un aroma strano e irresistibile.

Ma cosa accade quando a cercare il cibo non sono i vivi, bensì i morti? Nell’immaginario folklorico e letterario, la fame è una delle motivazioni più potenti per il ritorno dall’aldilà. I fantasmi affamati popolano le leggende del Giappone, come gli gaki e gli yūrei, anime condannate a desiderare cibo o bevande che non possono più gustare. Nell’Europa medievale, i revenants — morti inquieti — tornavano per mordere i vivi, per bere il sangue o per consumare il grano e il vino destinati alla famiglia. In alcune tradizioni scandinave, gli spiriti dei defunti bussavano alle porte nelle notti gelide d’inverno, e rifiutare loro una ciotola di zuppa o una pagnotta di segale poteva attirare sventure sull’intero villaggio. La fame, in questi racconti, è più che fisica: è fame di memoria, di riconoscimento, di giustizia. Dare da mangiare ai morti non è solo pietà: è un modo per tenere in equilibrio il fragile patto tra il mondo dei vivi e quello degli spiriti.

Anche la letteratura horror ha saputo usare il cibo con maestria inquietante. Edgar Allan Poe, nel racconto Il barile di Amontillado, trasforma il vino in strumento di inganno e sepoltura, mentre in La maschera della morte rossa il banchetto dei nobili è uno sfregio opulento nel cuore della peste. Lovecraft, invece, evoca gusti indicibili: non descrive tanto il sapore quanto la repulsione. In La cosa sulla soglia, il cibo è contaminato da presenze aliene, mentre in Il colore venuto dallo spazio la terra stessa avvelena ciò che produce. In entrambi i casi, mangiare è atto di rischio, di contaminazione, di perdita del confine tra umano e mostruoso. Il sapore dell’orrore, in questi autori, è il gusto del degrado, del marcio sotto la superficie, del familiare che si deforma.

Ed è proprio nel luogo più familiare, la cucina, che si nasconde uno dei volti più profondi della stregoneria. La figura della strega non è solo evocatrice di spiriti e preparatrice di pozioni: è anche cuoca, alchimista, madre e sovversiva. Nella cucina, la donna ha per secoli esercitato un sapere “minore” ma potentissimo, fatto di trasformazioni, dosi, tempi, cotture, decantazioni. Il calderone non è solo contenitore: è matrice, ventre, luogo in cui la materia si fa altro. E il gesto del cucinare, così quotidiano, si carica di una valenza magica, rituale. Ogni zuppa, ogni infuso, ogni confettura può diventare incantesimo — per curare, sedurre, proteggere o vendicarsi. Anche oggi, nel recupero delle antiche erbe e dei saperi erboristici, questo retaggio riaffiora: cucinare non è solo nutrire, è esercitare un potere invisibile, sottile, profondo.

Infine, c’è il vino. Ma non il vino da pasto, conviviale, solare. Il vino notturno, rituale, versato in silenzio o bevuto in cerchio. Il brindisi maledetto è quello che suggella patti oscuri, che consacra sacrifici, che richiama i morti o sigilla promesse. Bere da una coppa nera, da un calice inciso, o persino — nelle leggende nordiche — da un cranio svuotato, ha una carica simbolica potentissima. È un gesto che segna il passaggio, l’iniziazione, il confine. In alcune tradizioni stregonesche europee si usava consacrare il vino con parole segrete, rendendolo veicolo di desiderio o di maledizione. E non va dimenticato che, nelle forme più antiche di ritualità, il vino — come il sangue — è offerta. Scende a terra per placare le divinità, per nutrire la terra, per suggellare un patto che non si può più rompere.

Chi si occupa di enogastronomia sa bene che il cibo parla molte lingue: il piacere, la memoria, la cultura. Ma ce n’è una più sottile, arcana, notturna, che si manifesta nei simboli, nei miti, nei brividi. È quella lingua antica che ci racconta non solo cosa mangiamo, ma chi siamo — e cosa temiamo, quando si fa buio.

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