Il gusto del viaggio: esplorare il mondo attraverso il cibo e il vino

Un approccio sensoriale alla scoperta delle culture gastronomiche di diversi paesi

C’è un modo unico, intimo e profondamente umano per attraversare il mondo: sedersi a tavola. Non serve conoscere la lingua di un paese per comprenderne l’anima, se si ha il coraggio e la curiosità di assaggiare ciò che quel luogo ha da offrire. Il cibo, ancor più del paesaggio o dell’architettura, parla la lingua dell’identità. È un archivio di memorie, un racconto a ogni morso, un’eco di riti ancestrali che attraversano i secoli.

Pensiamo al cous cous marocchino: dietro quei granelli di semola lavorati a mano si cela un universo fatto di gesti tramandati oralmente, di pranzi collettivi, di deserto e di ospitalità berbera. Oppure al sake giapponese, che non è solo una bevanda fermentata, ma una liturgia di purezza, un simbolo di armonia tra uomo e natura, un rituale che unisce passato e presente. Ogni cultura plasma i propri piatti come un artigiano fa con l’argilla: con pazienza, conoscenza, rispetto. E così, il cibo diventa specchio fedele della visione del mondo di un popolo.

Lo stesso si può dire del vino, che più di ogni altra bevanda si radica nel concetto di luogo. In nessun altro campo come in quello vitivinicolo il territorio, o per meglio dire il terroir, assume una centralità così assoluta. La mineralità tagliente di un bianco della Loira, la voluttuosa rotondità di un Pinot Nero della Borgogna, la potenza strutturata di un Cabernet della Napa Valley: tutto è frutto di un equilibrio fragile e perfetto tra terra, clima e mano umana.

A Mendoza, in Argentina, i filari si arrampicano verso le Ande respirando aria sottile e intensa. A Stellenbosch, in Sudafrica, i vigneti si nutrono di brezze oceaniche e sole implacabile. Ogni sorso racconta un paesaggio, una civiltà agricola, un’idea di tempo. Bere un vino in loco, magari seduti a un tavolo all’aperto con vista sulle vigne, è un atto di immersione sensoriale e culturale.

E se il vino è lente per leggere il territorio, il mercato è lo specchio dell’anima popolare. I mercati locali sono, ovunque nel mondo, veri e propri teatri urbani. Luoghi in cui il profumo della frutta matura si mescola all’odore della carne arrostita, dove le mani danzano tra sacchi di spezie, ceste di pesce ancora vivo, verdure dai nomi impronunciabili. A Oaxaca, in Messico, il mercato brulica di mole scuri come la notte, di tazze fumanti di cioccolata speziata, di tortillas fatte al momento. A Bangkok, tra i banchi galleggianti, il curry ribolle accanto a frutti sconosciuti e insetti fritti. È un’esperienza che coinvolge ogni senso, una sinfonia di impressioni che nessuna guida turistica potrà mai restituire.

Il viaggio gastronomico, tuttavia, non si limita al cosa si mangia, ma include il come. Le tradizioni conviviali sono forse il più affascinante degli aspetti della cultura alimentare. In Spagna, le tapas non sono solo piccoli piatti, ma pretesti per la socialità diffusa, per serate che si srotolano lentamente tra un assaggio e l’altro. In Giappone, l’izakaya è il rifugio serale dell’impiegato, dove sake e spiedini si consumano insieme alla formalità che si scioglie. In Medio Oriente, il mezé non è una sequenza di antipasti, ma un invito all’intimità e alla condivisione. E in Sudafrica, il braai, la grigliata rituale del fine settimana, è un momento identitario che accomuna popoli, lingue e culture diverse sotto un’unica brace.

Infine, non si può dimenticare il ruolo determinante della geografia e del clima nella formazione dei sapori. Nei paesi caldi, l’uso massiccio di spezie non è solo una questione di gusto, ma anche una strategia per conservare e igienizzare il cibo. Nei climi freddi, al contrario, dominano grassi e piatti robusti, nati per fornire energia e calore. Pensiamo al burro chiarificato del Tibet, al lardo norvegese, alla carne essiccata dell’Asia centrale. In ambienti montani o desertici, si sviluppano tecniche di conservazione come l’affumicatura, la salagione, la fermentazione. Ogni cultura ha dovuto adattarsi alle risorse disponibili, trasformando necessità in virtù, scarsità in sapore.

Nel viaggio gastronomico, dunque, il palato è solo l’inizio. Dietro ogni boccone si cela un mondo. Ed è proprio questo che rende il cibo e il vino strumenti così potenti per comprendere — e assaporare — la complessità e la bellezza del pianeta.

Viaggiare con il gusto significa anche accettare le contraddizioni e le sfumature del mangiare nel mondo: non esistono solo tavole imbandite da grandi chef o piatti poveri venduti sul ciglio della strada. Esiste, piuttosto, un continuum che attraversa l’intero spettro dell’esperienza culinaria, e che spesso unisce street food e alta cucina più di quanto si possa immaginare. In Thailandia, ad esempio, un turista curioso potrà assaporare un pad thai preparato in pochi minuti su un carretto mobile, con ingredienti semplici ma sapientemente dosati, e lo ritroverà — decostruito e reinventato — in un ristorante stellato a Bangkok, come omaggio al genio gastronomico popolare. In Messico, il taco, cibo umile e quotidiano, diventa terreno di sperimentazione per chef innovativi, che ne rispettano la struttura ma ne riscrivono i codici. È la stessa cultura che parla, con due registri diversi: uno colloquiale, l’altro poetico.

Nel dialogo tra culture, pochi elementi sono tanto trasversali quanto il vino. Simbolo di convivialità, spiritualità, lavoro e raffinatezza, il vino ha attraversato le frontiere ben prima delle moderne globalizzazioni. In Georgia, considerata la culla della viticoltura, la tradizione dei qvevri (anfore interrate per la fermentazione) sopravvive da millenni, e racconta di una civiltà che ha posto il vino al centro della propria identità. In Francia, il vino è filosofia e metodo, disciplina e creatività; in Italia, è memoria liquida, eredità di secoli di paesaggio plasmato a filari. In Cile e Argentina, la vite è figlia dell’esilio europeo, trapiantata in una nuova terra che ha saputo renderla propria. Bere un vino straniero significa entrare in contatto con un’altra idea di tempo e di natura: è un dialogo che non ha bisogno di traduzioni.

Anche il cibo, del resto, ha sempre viaggiato con l’uomo. I flussi migratori — volontari o forzati, antichi o contemporanei — hanno dato origine a cucine ibride e affascinanti, che spesso diventano simbolo di resilienza e integrazione. La cucina creola, ad esempio, nata dall’incontro tra Africa, Europa e Caraibi, è un’esplosione di colori e spezie che racconta storie di sofferenza e resistenza. La cucina nikkei, risultato dell’incontro tra Giappone e Perù, mescola rigore orientale e opulenza latinoamericana in piatti che sembrano raccontare un’utopia gastronomica. E il curry britannico, oggi amato e onnipresente nel Regno Unito, è il risultato post-coloniale di secoli di scambi (non sempre pacifici), oggi assorbiti nella quotidianità del gusto. I sapori migranti ci ricordano che la cucina non è mai statica: è dialogo, conflitto, incontro.

In questo orizzonte così ricco, meritano attenzione anche le cucine meno conosciute, quei tesori gastronomici nascosti che sfuggono ai radar del turismo di massa ma che custodiscono patrimoni di gusto e memoria. La cucina etiope, con il suo injera spugnoso e le salse speziate, è un’esperienza conviviale e tattile. La cucina georgiana offre pani ripieni, erbe aromatiche e piatti che sembrano usciti da un’epoca favolosa. Il Vietnam, con la sua varietà di zuppe e insalate, è un trionfo di equilibrio tra acidità, dolcezza e croccantezza. In Moldavia o in Uzbekistan, invece, la cucina è fatta di mani, forno e tempo: ingredienti poveri, ma sapori intensi e profondi. Scoprire queste cucine significa entrare in contatto con mondi spesso trascurati, ma ricchissimi di umanità.

Infine, viaggiare attraverso il gusto richiede una predisposizione sensoriale e mentale. Non si tratta solo di assaggiare, ma di saper ascoltare con il palato, di entrare in empatia con una cultura attraverso i suoi profumi e le sue texture. Prima di partire, conviene lasciarsi ispirare: studiare i piatti tipici, leggere qualcosa sulla storia alimentare del paese, segnare i mercati da non perdere, ma anche imparare qualche parola essenziale. “Pane”, “vino”, “formaggio”, “piccante”, “buono”, “ancora”… parole che aprono porte, sorrisi e piatti. Più che una guida, è uno stile di viaggio: lento, curioso, rispettoso.

In un’epoca in cui tutto corre veloce e il turismo rischia di trasformarsi in consumo frettoloso, scegliere di esplorare il mondo attraverso il cibo e il vino è un atto di amore e di attenzione. È, in fondo, un brindisi al pianeta: alle sue diversità, ai suoi aromi, alle sue infinite storie da assaporare.

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