Analisi di come il cibo e il vino siano stati rappresentati e codificati nelle arti visive e narrative
Nel vasto repertorio simbolico che attraversa la storia dell’arte occidentale, il cibo e il vino occupano un posto centrale, denso di significati che superano di gran lunga la mera rappresentazione della realtà quotidiana. Fin dal Rinascimento, artisti e narratori hanno usato pane, frutta, carne e vino non solo come elementi decorativi o realistici, ma come strumenti per raccontare il mondo, l’animo umano, le passioni e i timori di un’epoca. Attraverso i piatti raffigurati e le coppe traboccanti, le opere d’arte ci svelano desideri nascosti, codici morali e tensioni sociali.
Nel cuore dell’immaginario rinascimentale, il cibo assume una funzione allegorica. La mela, ad esempio, è il simbolo per eccellenza del peccato originale, della conoscenza proibita, e appare spesso nelle mani di Eva o come elemento isolato che allude alla caduta. Ma anche l’uva, con il suo succo che ricorda il sangue, assume connotazioni profonde: è simbolo di sacrificio, di eucaristia, di redenzione. In dipinti religiosi come quelli di Leonardo, ogni frutto, ogni pane spezzato, ogni calice di vino è collocato con una precisione che va ben oltre la composizione estetica. Ne L’Ultima Cena, il pane e il vino non sono semplici pietanze: sono il corpo e il sangue del Cristo, strumenti del mistero e della salvezza. Allo stesso modo, Caravaggio – con la sua pittura intensa e teatrale – infonde nei suoi banchetti biblici e profani una tensione palpabile, dove il gesto di prendere un frutto o versare un vino può suggerire desiderio, minaccia o rivelazione. Bosch, dal canto suo, costruisce tavole oniriche e inquietanti in cui il cibo diventa simbolo di corruzione, di tentazione carnale, di un’umanità preda dei sensi.
Nel Seicento, l’attenzione si sposta sulle nature morte: sontuose composizioni di frutta, carne, pesce, dolci e bicchieri ricolmi che, sotto l’apparenza di esuberanza barocca, nascondono una meditazione sul tempo, sulla morte e sul peccato. Nei dipinti fiamminghi, la frutta troppo matura, il vino che trabocca, il pesce già aperto sono segnali di un’abbondanza effimera. Tutto è in procinto di marcire, di sparire, di corrompersi. In quelle tavole immobili, il cibo ci parla della fragilità della vita, della vanitas, della necessità del distacco. Ma anche del piacere, del lusso, della gloria temporanea. Il vino in particolare – simbolo di festa ma anche di eccesso – è spesso raffigurato nel momento in cui esce dal calice, pronto a macchiare la tovaglia o cadere a terra. Un invito, forse, a godere con misura.
Parallelamente, la rappresentazione del pasto collettivo, della cena condivisa, acquista nella pittura un valore politico e sociale. Il banchetto è rito, messa in scena di potere e appartenenza. L’Ultima Cena, certo, è il paradigma più celebre: una tavola lunga, dodici convitati, un traditore, un gesto sospeso tra il sacro e l’umano. Ma anche i banchetti profani del Seicento, carichi di figure aristocratiche, musici, servitori e cacciagione, riflettono le gerarchie di classe, la centralità dell’ospitalità come forma di dominio, la teatralità del convivio come atto di rappresentazione. Il cibo diventa strumento politico, linguaggio del rango, manifestazione visibile del potere e della cultura.
Eppure, non tutto resta confinato alla tela. Anche nella letteratura, il vino e il cibo sono specchi dell’anima. Nei miti classici, Dioniso – dio del vino e della follia – è colui che dissolve le regole, abbatte le barriere tra umano e divino, tra piacere e disordine. Le baccanti e i satiri che lo circondano incarnano l’estasi, la sensualità sfrenata, l’ebbrezza che rompe la norma. I pittori rinascimentali e romantici riprendono queste immagini con gusto teatrale, sensualità vibrante, ambiguità simbolica: il vino che libera può anche corrompere, l’ebbrezza può illuminare o distruggere.
Questo legame tra cibo, vino e desiderio prosegue nei romanzi. In Madame Bovary, Emma cerca nella raffinatezza dei pasti un riscatto dalla noia e dalla mediocrità. Nel Gattopardo, il cibo diventa una liturgia aristocratica, una memoria vivente della decadenza. Per Proust, la madeleine è soglia del ricordo, profezia del tempo perduto. Per Moravia, il mangiare è spesso un atto privo di grazia, svuotato di senso, specchio di una società alienata. Mangiare e bere diventano, nella narrativa moderna, gesti densi di erotismo, di malinconia, di frustrazione: sono il linguaggio del corpo che tenta – invano – di saziarsi.
Nel fondo di un calice, su un piatto colmo o nel morso di un frutto, l’arte e la letteratura hanno nascosto e rivelato le contraddizioni dell’uomo. Tra sacro e profano, tra godimento e privazione, tra bellezza e decadenza, il cibo e il vino continuano a raccontarci, più di ogni parola.
Ma l’arte, come la vita, non si nutre soltanto di abbondanza. Esiste un’estetica della fame, una narrazione del vuoto che parla più forte del pieno. I mangiatori di patate di Van Gogh ne è l’emblema: un interno povero, mani nodose, volti scavati, la luce fioca di una lampada a olio. Su quella tavola modesta, le patate diventano l’unico nutrimento possibile, ma anche il simbolo di una dignità resistente, di un’umanità inchiodata alla fatica e alla terra. Così anche Le spigolatrici di Jean-François Millet, chine sul campo a raccogliere le briciole del raccolto, raccontano una fame che non è solo fisica, ma sociale: fame di giustizia, di attenzione, di visibilità. Nella letteratura verista, da Verga a Capuana, il cibo è spesso assente, o ridotto a un tozzo di pane, a un bicchiere di vino centellinato. In questi racconti la fame è condizione permanente, e il vino non è un piacere conviviale, ma un miraggio o un lusso dei signori. Mangiare diventa sopravvivere, e non sempre ci si riesce.
Là dove manca il cibo reale, spesso entra in scena il cibo immaginario. Nelle fiabe, nei racconti fantastici, negli universi mitopoietici, il cibo assume poteri magici, trasformativi, ingannevoli. La casetta di marzapane di Hansel e Gretel, dolce trappola di zucchero e desiderio, è l’esempio perfetto di come la fame possa deformare la realtà fino a renderla mostruosamente dolce. Nei racconti di Perrault e dei fratelli Grimm, ma anche nelle saghe moderne come quelle di Tolkien o di Lewis, il cibo è spesso soglia tra mondi: pozioni che cambiano forma, pani elfi che saziano in una briciola, vini che inebriano e svelano visioni. In questi mondi fiabeschi, l’alimentazione non è mai neutra: mangiare può significare crescere o regredire, perdersi o salvarsi. È un rito iniziatico, un rischio o una promessa.
E il vino? Il vino è l’elemento che meglio incarna l’ambiguità tra sacro e profano. Nell’arte cristiana, è sangue di Cristo, simbolo del sacrificio redentore, della comunione dei fedeli, della presenza divina. Ogni calice raffigurato nelle mani di un Cristo o di un santo è carico di un potere teologico che attraversa secoli e culture. Ma accanto a questo vino sacro, esiste il vino dionisiaco, pagano, liberatorio. È il vino di Bacco, che dissolve i confini, scioglie le convenzioni, accende la carne e la parola. Due vini, due mondi, che si specchiano e si contrappongono: uno legato alla rinuncia, l’altro all’eccesso. Eppure, entrambi rivelano una stessa verità: che il vino è sempre simbolo di passaggio, di trasformazione, di comunione con l’oltre.
Nel panorama letterario contemporaneo, l’enogastronomia si fa più intima, quotidiana, esistenziale. Haruki Murakami descrive spesso, con minuzia quasi ipnotica, i piatti che i suoi personaggi cucinano in solitudine: spaghetti al pomodoro, toast, birra. Sono gesti rituali che scandiscono il tempo, che ancorano l’identità in un mondo incerto. Banana Yoshimoto fa del cibo un ponte affettivo tra passato e presente, tra lutto e guarigione. Amélie Nothomb, invece, lo trasforma in ossessione, in linguaggio estremo del corpo e dell’anima. Andrea Camilleri, nei suoi romanzi con Montalbano, mette in scena una vera liturgia del cibo: il pasto come atto contemplativo, intimo, mai banale. Ogni piatto – dal polpo alla ghiotta alla caponata – racconta una Sicilia viva, sensuale, parlante. Qui il cibo non è solo elemento decorativo: è struttura narrativa, è memoria incarnata.
Ma ci sono anche artisti che vanno oltre il visibile, che trasformano il cibo in sogno o incubo. Salvador Dalí, con i suoi pani molli e i banchetti allucinati, ci conduce in un mondo dove la materia sfugge alla logica, dove il cibo si scioglie come il tempo. Arcimboldo costruisce volti con ortaggi e pesci, trasformando il nutrimento in maschera, in illusione. I simbolisti dipingono banchetti misteriosi, tavole immerse in un’atmosfera sospesa, crepuscolare, dove il cibo è presenza enigmatica, allusione erotica, segno dell’invisibile. In questo universo surreale, il cibo smette di essere nutrimento e diventa linguaggio puro, gioco mentale, visione.
Così, attraversando i secoli e le forme, scopriamo che ciò che mettiamo sulla tavola – o sulle tele – non racconta solo chi siamo, ma anche chi sogniamo di essere, chi temiamo di diventare, chi abbiamo smesso di essere. Il cibo e il vino, da sempre, parlano una lingua fatta di sensi e di simboli, una lingua che l’arte continua a tradurre, reinventare, sussurrare.
